Quale colore può avere un sogno? (Marina De Stasio, 1996)
Per Monika Wolf la pittura è anzitutto un mezzo per esprimersi e per comunicare; è un processo che ha inizio dal segno, parte cioè da una sorta di scrittura che porta alla luce con immediatezza, senza filtri, un moto dell’ interiorità, per poi trovare forma, profondità, complessità attraverso l’intervento del colore: un percorso da un segno direttamente espressivo a un colore più pensato e cercato.
Quale può essere il colore di un’emozione o di un concetto? Quale colore può avere un sogno? Qual è, insomma, il colore dell’invisibile?
L’arte se lo chiede da sempre; ogni artista dà la sua risposta. Per la Wolf il colore può anche sovvertire i rapporti tra le forme: una forma massiccia e scura associata a una più piccola e di un colore più tenero può dare la sensazione di una costrizione, di una forzatura, mentre un’armonia di segni e colori può comunicare il senso del riposo, della pace.
Anche se spesso la composizione suggerisce lo spazio di un paesaggio o di un interno o l’apparizione di una figura, nel complesso è un’arte tendenzialmente astratta, non perché cerchi un effetto solo esteriore, di pura costruzione o decorazione, ma al contrario per avere la massima libertà di creare, con i mezzi della pittura, una comunicazione, un dialogo: attraverso simboli che nascono dal fare dell’artista, tende a esprimere in forma figurata gli eventi della sua vita interiore.
In questo senso l’opera della pittrice va collocata in un ambito postinformale, in particolare va vista come uno degli sviluppi di quella particolare tendenza informale a cui appartengono, tra gli altri, Wols e Cy Twombly, e che ha le sue radici nel Surrealismo, cioè in una concezione dell’arte come manifestazione diretta dell’inconscio e come contatto diretto tra forze inconsce attraverso l’azione del segno, sentito come scrittura automatica. Non a caso l’artista ha dichiarato in un’ intervista che i simboli che appaiono nelle sue composizioni hanno spesso origine nel sogno, sono forme viste nel sogno; non a caso un tema ricorrente nella sua opera sono quei segni incontrati nell’opera dei primitivi, in particolare nell’arte degli Indiani d’America, che ha riconosciuto come parte di un proprio mondo inconscio o – si può anche dire – di un inconscio collettivo: il vestito dell’Indiano contiene la sua anima, i segni che lo ornano imprigionano in sé non solo le energie delle persone, ma anche quelle del mondo naturale.
Negli ultimi tempi, in questo lavoro diventa sempre più importante un altro elemento, cioè la materia: la carta che è insieme supporto e mezzo espressivo nel collage – pagine di musica o di giornale -, e poi foglie, metalli, legni, polveri, i resti delle matite temperate. Le superfici e i colori di questi materiali, così come le ceneri o le bruciature, diventano parte della pittura; attraverso la tessitura della carta, ruvida o lucente, le superfici lisce o increspate, l’espressività della materia si manifesta nel modo più intenso. Un foglio di musica si ripiega a formare una busta, portatrice di un messaggio sconosciuto; in una sequenza di fogli, il gatto Lucino a poco a poco prende forma, si definisce, si scurisce, poi gradualmente, quando sembra di poterlo mettere a fuoco e riconoscere con certezza, si allontana, sfuma.
Nei lavori più recenti la composizione tende ad aprirsi e allargarsi, oltre che ad accogliere in sé ed esprimere tensioni e movimenti. Sono composizioni tormentate, a volte aspre e scabre, e tuttavia non prive di una loro grazia malinconica: un mondo povero, rarefatto, che si affida a mezzi espressivi ridotti al minimo, ad elementi linguistici essenziali.
L’uso del collage e di materiali poveri come elementi formali e cromatici che sono parte integrante della composizione, appartiene anch’esso alla tradizione dell’Informale, da Burri a Tàpies, tuttavia è in parte conseguenza di una riflessione sull’ arte povera italiana e sull’esperienza di un artista come Beuys: attraverso questi materiali così veri, così direttamente tratti dalla vita, come attraverso i simboli ripresi dall’arte degli Amerindi o dal mondo onirico, Monika Wolf cerca un contatto profondo tra l’opera d’arte e le forze della natura.
Marina De Stasio, gennaio 1996